Ipotesi in campo in materia previdenziale per la legge di Bilancio 2026.
Diciamo SI allo stop all’aumento dell’età pensionabile e NO all’uso dei TFS/TFR per la pensione a 64 anni.
Settembre è, tradizionalmente, il mese in cui, sul fronte politico e dell’informazione, partono il confronto e la discussione sulla manovra finanziaria dell’anno a venire, il cui disegno di legge, dopo la trasmissione al Parlamento del DPFP (Documento Programmatico di Finanza Pubblica), dovrà essere, prima approvato dal Consiglio dei Ministri e poi assegnato entro il 20 ottobre ad una delle Camere (questa volta, in prima battuta dovrebbe essere la volta del Senato) ai fini dell’esame e della successiva approvazione entro fine anno.
Anche quest’anno sta avvenendo così, con la discussione che è decollata in particolare dopo l’intervento del Ministro Giorgetti al meeting di Rimini di fine agosto. Le previsioni parlano di un manovra ancora una volta non facile in ragione delle limitate risorse disponibili, e si delineano piano piano le scelte possibili di politica economica 2026: taglio dell’IRPEF con la riduzione della seconda aliquota dal 35 al 33% con estensione della platea fino ai redditi di 60mila € (oggi fino a 50mila); una nuova rottamazione (la “quinquies”) delle cartelle esattoriali emesse da gennaio 2000 con rate più piccole e più diluite nel tempo; stabilizzazione dell’IRES premiale (aliquota ridotta dal 24 al 20%) per le società che non distribuiscono gli utili ma li utilizzano in investimenti e in creazione di nuovi posti di lavoro; aumento della soglia del regime forfetario portando la flat tax dagli attuali 85mila ai 100mila € di reddito annuo; innalzamento della soglia di esenzione fiscale per i buoni pasto elettronici da 8 euro a 10 euro; detassazione delle tredicesime di lavoratori e pensionati; etc. Trattasi, nel complesso, di misure non certo orientate primariamente a migliorare le condizioni di vita di lavoratori e pensionati, in questi ultimi anni messe davvero a dura prova dalla crisi economica, ma con l’occhio viceversa più attento verso altre categorie, in primis lavoro autonomo (si pensi all’estensione della flat tax). Vedremo quali saranno le scelte finali del Governo e non mancheremo di fare le nostre valutazioni.
Anche quest’anno però, accanto alle scelte di carattere fiscale, a recitare un ruolo di primo piano nella messa a punto della legge di bilancio, saranno di certo le scelte che verranno fatte in materia previdenziale.
Il quadro di partenza, alla luce delle ultime due manovre di bilancio, non è purtroppo confortante: nonostante i ripetuti impegni elettorali, la riforma della Fornero non è stata ancora varata, anzi in questi anni si è andati all’opposto verso l’inasprimento dei requisiti per le uscite dal lavoro, che hanno così allungato, e non ridotto, i tempi di permanenza in servizio e diminuito sensibilmente i pensionamenti anticipati.
Dopo la forte contrazione registrata nel 2024 (25mila circa in meno rispetto al 2023), nel primo semestre di quest’anno – dati INPS – si è registrata una ulteriore riduzione del 17 % rispetto al 2024 dei pensionamenti anticipati (n. 98.356 rispetto ai 118.550); solo in numero di 1.134 i pensionamenti con “opzione donna” nel primo semestre 2025 (in tutto il 2024 erano state 3.590); e anche per quanto riguarda “quota 103”, gli andamenti registrati appaiono in forte riduzione (nel 2024 solo 1.153 lavoratori hanno scelto di andare in pensione con quella formula), e nel primo semestre 2025 si è assistito ad una ulteriore contrazione, anche a causa delle penalizzazioni introdotte (ricalcolo tutto contributivo dell’assegno e tetto max dell’assegno).
Un quadro di partenza molto preoccupante, dunque, alla vigilia del varo della manovra 2026, che rischia di inasprirsi ulteriormente, anche per il possibile aumento dell’età pensionabile di 3 mesi a partire dal 2027.
Due allora, in particolare, le questioni in campo che andranno affrontate nella manovra di bilancio: la prima, come sterilizzare l’aumento dell’età pensionabile; la seconda, come anticipare le uscite dal lavoro.
AUMENTO ETA’ PENSIONABILE
L’età pensionabile è legata all’incremento dell’aspettativa di vita ed è previsto che, periodicamente (dal 2019, ogni due anni), l’età per il pensionamento sia adeguata tramite apposito decreto interministeriale da adottare con 1 anno di anticipo, in base all’allungamento della vita media della popolazione rilevata da ISTAT.
Attualmente e fino al 31.12.2026, le opzioni di uscita ordinaria senza penalizzazioni previste dalla Legge Fornero sono due: “pensione di vecchiaia”, con 67 anni d’età e 20 anni di contributi e “pensione anticipata ordinaria”, con 42 anni e 10 mesi di contributi (uno in meno per le donne) indipendentemente dall’età anagrafica posseduta. Ma dal 1.1.2027, a seguito della rilevazione ISTAT sulla più alta aspettativa di vita, l’età pensionabile dovrebbe crescere in automatico di 3 mesi: dunque, 67 anni e 3 mesi d’età per la “pensione di vecchiaia” e 43 anni e 1 mese (sempre 1 anno in meno per le donne) di contributi per quanto riguarda la “pensione anticipata ordinaria”.
A tal riguardo, l’obiettivo dichiarato dal Governo è quello di sterilizzare, con apposito decreto da varare entro la fine del corrente anno, l’aumento dei 3 mesi, mantenendo così gli attuali requisiti di uscita anche per il biennio 2027/2028. Ma a quali costi, ancora non è dato sapere: INPS parla di 1 / 1,5 mld di € all’anno, il MEF solo di 3 / 400 mln di €, vedremo allora chi ha ragione dopo gli approfondimenti tecnici che verranno operati.
Ovviamente, noi condividiamo pienamente l’esigenza di intervenire per bloccare l’aumento dell’età pensionabile dal 1° gennaio 2027, facciamo però notare che il blocco nel prossimo biennio si scaricherebbe però sul biennio successivo 2029/2030, portando così l’età pensionabile più in su, addirittura di sei mesi. Allora, a nostro giudizio, il problema è di una portata ben superiore, atteso che il meccanismo di adeguamento automatico com’è oggi congegnato pesa in primis sui lavoratori più giovani, che rischiano in pensione di non andarci mai. Per questo, quel meccanismo andrà riformato, come noi chiediamo da tempo
USCITE ANTICIPATE DAL LAVORO
E’ noto che l’Italia è tra i Paesi nei quali i lavoratori vanno più tardi in pensione. La nostra proposta (tavoli 2023) è quella di consentire, senza penalizzazione e senza vincoli sugli importi minimi rispetto all’assegno sociale, il collocamento in pensione per tutti i lavoratori che hanno raggiunto i 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica, o con 62 anni d’età a fronte di una anzianità contributiva minima da definire.
Una proposta sinora purtroppo caduta nel vuoto, a fronte di un inasprimento dei requisiti di uscita dal lavoro.
Il Sottosegretario al Lavoro delegato in materia pensionistica Durigon ha lanciato in estate una proposta per anticipare l’uscita – per tutti i lavoratori di aziende sopra i 50 dipendenti, su base volontaria e con calcolo interamente contributivo – con 64 anni d’età e 25 anni di contributi, oggi riservata ai soli c.d. “contributivi puri”(al lavoro dal 1996), ma utilizzando il TFR fermo all’INPS per fare cumulo e raggiungere così l’importo soglia previsto di assegno pensionistico, oggi pari a € 1.616,07 (tre volte l’assegno sociale di € 538,68 netti). Con un vantaggio anche per INPS, dice il SSS, perché il TFR da dare ai lavoratori sarebbe in tal caso minore.
Recenti approfondimenti tecnici, però, hanno dimostrato che il raggiungimento dell’importo soglia senza intaccare il TFR sarebbe possibile solo per retribuzioni mensili di minimo 2.200 € netti; per retribuzioni inferiori, andrebbe intaccato il TFR (per es.: con 1500 € netti al mese, servirebbero 106mila € di TFR!).
Ipotesi inaccettabile, essendo ben altre le scelte da fare per anticipare i pensionamenti, pescando le risorse necessarie dove ci sono (recupero evasione e lotta agli sprechi, in primis) e non certo usando il TFR.
Dobbiamo infine registrare in negativo come, né governo né altri autorevoli esponenti politici dei diversi campi, abbiano fatto la benché minima menzione sull’urgenza di dare finalmente attuazione, nella prossima legge di bilancio, alla sentenza della Corte Cost. n. 130/2023 sul TFS per ridurre i tempi di erogazione del TFS, rispetto ai quali prosegue l’iniziativa unitaria confederale, in primis di CSE e CGS, per cancellare quella “vergogna” di cui ha parlato a suo tempo il Segr. Gen. CSE, Marco Carlomagno.
La complessità delle questioni in campo e del quadro complessivo di riferimento renderebbe quanto mai necessaria la convocazione delle Parti sociali per tavoli di confronto con il Governo sul tema previdenza. Li chiediamo invano da tempo, e continuiamo a richiederli a maggior ragione oggi in previsione DDL Bilancio.